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Giornata Europea delle Lingue.

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Oggi, 26 settembre, si celebra la Giornata Europea delle Lingue, proclamata il 6 dicembre 2001 dal Consiglio d’Europa, con il patrocinio dell’Unione Europea.

Obiettivi di questa giornata sono la sensibilizzazione sull’importanza dell’apprendimento delle lingue per migliorare il plurilinguismo e la comprensione interculturale, promuovere la diversità linguistica dell’Europa e incoraggiare uno studio delle lingue esteso a tutta la vita.

Averne scoperto l’esistenza solo pochi giorni fa mi ha fatta stupire di me stessa: com’è possibile che non ne sapessi nulla??!

Sono quasi sicura che oggi, in Italia, saranno tutti concentrati sulla Giornata Mondiale di Qualunque-Cosa-È-Più-Importante-Delle-Lingue, forse per questo non ne avevo mai sentito parlare prima.

Stando alle indagini degli ultimi anni, infatti, il “Bel” Paese mantiene salda la sua posizione fra i peggiori in Europa riguardo la conoscenza della lingua straniera per eccellenza, l’inglese.

Io, che alle lingue straniere ho dedicato buona parte delle mie energie, del mio tempo e, più in generale, della mia vita, credo di poter dire che l’italiano medio è convinto che il nostro animato gesticolare abbia un potere comunicativo molto più efficace delle parole, così tende a improvvisare le lingua enfatizzando la mimica, e riuscendo in questo modo a renedere “maccheronica” qualsiasi lingua in cui decida di cimentarsi.

Egregi Signori, stimate Signore, mi duole informarvi che le cose non vanno proprio così.

Sapere una lingua straniera significa dedicarle l’intera vita, perché non esiste un punto d’arrivo da raggiungere, un traguardo da tagliare, esistono solo vocaboli, espressioni idiomatiche e strutture linguistiche da imparare, in continuazione, giorno dopo giorno.

Ne sa qualcosa l’AnarcoSocio che, dopo lo sciagurato incontro con la sottoscritta, si è ritrovato a confrontarsi con fenomeni quali la valenza semantica degli accenti, le riduzioni vocaliche, le consonanti vocalizzate, le coppie aspettuali dei verbi; tutte cose che, nello specifico, riguardano le lingue slave, dato che questo è il mio principale “campo d’azione”.
In fondo, però, chi non si è mai scontrato con i paradigmi dei verbi inglesi, con le lettere mute del francese, con i generi e le declinazioni del tedesco?

Imparare sul serio una lingua è faticoso, richiede impegno e dedizione, perché la differenza fra sapere una lingua e barcamenarcisi, il classico “farsi capire” all’italiana, non è cosa da poco.
C’è un abisso fra scimmiottare quel che si crede di star dicendo, nella speranza che i gesti chiarifichino eventuali dubbi dell’interlocutore, e padroneggiare le modalità comunicative proprie di ogni lingua.

Alla luce di tutto questo, in questa giornata proclamata per poi essere dimenticata, quanto meno dall’Italia, vorrei lanciare un piccolo appello: smettetela di chiedere a noi, bistrattati linguisti, cosa ce ne facciamo della grammatica approfondita e di tutte le regole fonetiche, morfologiche, lessicali, semantiche e sintattiche con cui ci facciamo scoppiare il cervello.

La risposta è una, quasi banale nella sua semplicità: noi, con tutta quella “robaccia”, ci muoviamo nelle retrovie, permettendo non solo la reale interazione fra paesi e culture diverse, ma anche una migliore qualità di vita a chi le lingue le guarda con supponenza, ritenendole inutili.

Siamo noi a tenere i rapporti lavorativi con i collaboratori esteri, noi a dedicarci al ramo traduttivo permettendo a ognuno di leggere un libro o guardare un film nella propria lingua d’appartenenza, noi a portarvi in giro per il mondo, non solo facendovi da guide, ma anche risolvendovi qualunque eventuale magagna vi capiti mentre vi godete le vacanze in un paese in cui sapete a mala pena salutare e ringraziare, sempre noi, attraverso l’insegnamento, a far sì che le nuove generazioni siano più “cittadine del mondo” delle precedenti.

Insomma, noi siamo ripetitori in carne o ossa, in grado di trasmettere dati e informazioni anche quando “non c’è campo” e la nostra batteria non si scarica mai, perché a muoverci è la passione per quello che facciamo.

 
 

Rompiamo il Silenzio…
… in tutte le lingue del mondo!

 
 

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Eight Days a Week

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Si è conclusa ieri, 21 settembre 2016, la proiezione del film-documentario «Eight Days A Week – The touring years», con cui Ron Howard ha scelto di rendere omaggio alla più grande band di tutti i tempi: The Beatles.

Da che parte cominciare?
Forse dall’immenso rimpianto di non essere vissuta negli anni ’60, quando la musica era più vissuta e meno monetizzata, sia per chi la faceva che per chi l’ascoltava.
Questo non toglie che i grandissimi nomi abbiano fatto soldi a palate, ma il prezzo da pagare era molto più alto di quanto non sia oggi, epoca in cui i “musicisti”, o sedicenti tali, riescono a guadagnare soldi perfino con un semplice e banale click del pubblico.

È stato curioso sentire persone che hanno avuto modo di ascoltare i Beatles “in tempo reale”, lamentarsi perché il film era in inglese con sottotitoli in italiano.
È vero che i sottotitoli attirano lo sguardo distraendolo dall’immagine, ma è vero anche che a me non era neanche passato per la testa che potesse essere doppiato.

Purtroppo non ho mai avuto la buona abitudine di approfondire la biografia dei musicisti che ascolto, lo faccio di rado perfino con gli autori che leggo, quindi figuratevi. Questo documentario, però, è stato un’esperienza commovente, un viaggio nel tempo di due ore e un quarto, un salto indietro di oltre 50 anni che mi ha catapultata in una realtà che mi ha conquistata.
Io, che nel mondo odierno mi sento sempre un po’ fuori luogo, ho scoperto che è esistito un periodo, fra l’altro neanche così lontano, in cui il mio essere alienata a causa di passioni più o meno condivise dalle masse, sarebbe stato la “normalità”. Un periodo in cui l’aspirare a fare della propria arte un’attività a tempo pieno non era visto come un’infantile e idealista utopia.

È stato interessante sentir svelare le origini autobiografiche di alcune canzoni e scoprire di più sulle personalità dei “Fab Four” di Liverpool, al punto che mi sono vergognata a morte dell’immensa ignoranza in cui galleggiavo quando, ragazzina in vacanza studio, mi è capitata la fortuna di visitare il museo loro dedicato proprio a Liverpool.

Con questo film Ron Howard non ha voluto celebrare l’immensa fama dei Beatles, ma ha voluto mostrare quali conseguenze questa fama abbia avuto sulle loro vite, personali e artistiche.
Venticinque concerti in trenta giorni, attraverso tutti gli Stati Uniti. Nella famosissima esibizione allo Shea Stadium di New York City, con 56.000 spettatori in delirio, i visi sono tirati, gli occhi stanchi, nonostante l’evidente sforzo per continuare a sorridere. Il grido d’aiuto di John Lennon nella canzone “Help!” mi ha colpita come un pugno allo stomaco.
La sensazione che ho provato io è stata che un sogno può spiccare il volo, ma se vola troppo in alto e troppo in fretta, non ti lascia il tempo di abituarti all’improvvisa mancanza d’ossigeno, finendo per soffocarti.

È stato davvero tremendo sbattere il naso contro il fatto che anche le aspirazioni più genuine, una volta realizzate, possono trasformarsi da inesauribili forze motrici a inarrestabili schiacciasassi che ti travolgono, annientandoti sotto il loro insostenibile peso.

Mi ha fatto riflettere parecchio sulla fase che sto vivendo.
Su quanto io mi stia perdendo il bello del viaggio perché troppo concentrata sulla meta, senza alcuna certezza che, se mai la raggiungerò, si riveli come io mi ostino a immaginarla.

 

E proprio con quel grido vorrei chiudere questo post, perché rimanga a monito dell’estrema delicatezza con cui sarebbe opportuno maneggiare i sogni.

 

 
 

Rompiamo il Silenzio…
…magari con della buona musica!

 
 

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L’Incubo per Eccellenza!

Rincoglionitissima…! -.-”

Le lezioni di russo sono finite, ma so per certo che, se non trovo il modo di tenermi in allenamento, il soggiorno a Pietroburgo finirà per rivelarsi un’inesauribile fonte di imbarazzanti silenzi e figure di m***a!

Così è partito il delirio.
I miei strambi metodi da autodidatta creativa stanno già prendendo il sopravvento, e il livello di rimbecillimento di stamattina conferma che forse non sono proprio un asso in questa cosa.

In effetti comincio a pensare che tirare l’una, con la sveglia alle sei meno un quarto, guardando cartoni animati in russo non sia stata un’idea geniale, ma… ne è valsa la pena! ;D

Voi avreste forse abbandonato a metà???

 

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