Film

Tu sei una favola!


 

Un bicchierone di latte macchiato, un caffè americano fumante e una curiosa chiacchierata con l’AnarcoSocio sulle conseguenze della discriminazione di genere sul lavoro.

Si ragionava su quanto le donne, costrette da retaggi culturali inamovibili a fare molto più degli uomini per ottenere un trattamento lavorativo paritario, finiscano per diventare acide arpie senza cuore.
L’aspetto bizzarro è che, in genere, questo atteggiamento viene riservato alle altre donne, quasi mai ai colleghi uomini. L’ipotesi che ne è uscita più accreditata è stata quella di una sorta di “guerra fra poverE”, che cercano in qualche modo di emergere nel contesto delle loro ‘pari’, ben consapevoli che provare a fare altrettanto rispetto alla controparte maschile sarebbe una battaglia persa in partenza.

Parlando, mi è tornato in mente l’ultimo cartone animato visto, davvero bellissimo: “Ballerina”.
Una coppia di amici inseparabili, una femmina e un maschio, entrambi orfani, scappano a Parigi nella speranza di realizzare i propri sogni. Alla fine, fra i due, è lei quella che ce la fa, grazie a un’incrollabile determinazione.

Tralasciando la riflessione femminista da cui questo post è nato, vorrei concentrarmi sul messaggio che questo fantastico cartone animato trasmette.
A differenza delle eroine di molti suoi predecessori, forse perfino più gettonati, la protagonista è una ragazzina “normale”, solo un po’ fantasiosa e molto intraprendente. Niente fate, animaletti prodigiosi o magie varie, solo tanta buona volontà e un’incredibile voglia di farcela, condite da qualche momento di debolezza e dall’umanissima tendenza ad approfittare di eventuali circostanze favorevoli, a volte perfino al costo di commettere qualche piccola scorrettezza.

Un invito, semplice ma efficace, a non arrendersi, a lottare per ottenere ciò che si desidera davvero, a scegliere il sentiero indicato dall’istinto, a credere sempre e innanzi tutto in sé stessi, a fare appello alla propria passione quando niente sembra andare per il verso giusto.
Un insegnamento prezioso per grandi e piccini, basato su quel principio di meritocrazia tanto oscuro all’epoca in cui viviamo, ma in cui non voglio smettere di credere.

 

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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La 15ª Domenica…

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Image Credit © VeRA Marte

 

La mia reclusione, sotto la denominazione ufficiale di ‘riposo forzato’, è iniziata di sabato, per la precisione il 26 novembre 2016, ma allo stato attuale non credo sia un singolo giorno a poter fare la differenza.

Settimana dopo settimana, oggi è la 15ª domenica in cui devo arrovellarmi il cervello per trovare qualcosa da fare che soddisfi la mia estrema necessità di evasione, senza però destabilizzare la mia salute capricciosa.

Niente più mostre, perché due ore in piedi in ambienti affollati e poco areati per me potrebbero rivelarsi delle vere e proprie bombe batteriologiche.
Niente passeggiate, o quanto meno con moderazione, perché ogni passo in più potrebbe essere quello fatale, l’innesco di una nuova rivolta autoimmune.
Niente merende, perché la vecchia terapia ha devastato il fegato, circostanza che ha portato all’imposizione di una ferrea dieta disintossicante.

Tanto cinema, almeno quello sì, perché, per ragioni a me ignote, ma per mia grande fortuna, il cervello si ostina vivere qell’agglomerato di persone stipate in uno spazio chiuso come una situazione ‘sicura’.

Insomma, passano i giorni, le settimane, i mesi, ma io rimango bloccata sempre nello stesso fotogramma di vita.
Nella foto i due lati della mia scatolina porta-farmaci, con il necessario per il weekend: 38 pastiglie, 18 e mezza al giorno, a cui si aggiungono quelle a frequenza variabile, fiale, gocce, pomate varie per gli sfoghi da farmaco, e chi più ne ha, più ne metta.

Difficile programmare un fine settimana ‘normale’ con queste premesse, ma io non mollo!
Proseguo la mia crociata d’assalto a tutte le librerie possibili e immaginabili, alla faccia dei puntini neri davanti agli occhi con cui il prednisone tenta di rendermi impossibile perfino la lettura.
Persevero nella frequentazione di locali in cui si fa musica dal vivo, giocandomi lo sgarro salato settimanale in hamburger, patatine e anelli di cipolla, per la prima volta dopo due mesi abbondanti di dieta, accompagnati però da una diligentissima e dignitosissima acqua naturale, che i farmaci con l’alcol fanno male.
Riservo lo sgarro dolce alla domenica pomeriggio, passando dai locali metallari del sabato sera a composte e graziose sale da tè, con le pareti color lavanda e i tavolini in legno bianco, imbanditi di tazze di profumate tisane alla frutta e scenografiche fette di torta in candidi piattini da dessert, che dopo le ore piccole una parentesi ristoratrice ci vuole.

Ebbene sì, cara la mia AnarcoPatia, ci hai provato a fermarmi, ma col ca**o che te la do vinta!
Ti ho concesso di rallentarmi, è vero, ma questo è quanto, non aspettarti altro.
Perché io sono io, non sono la mia malattia, non sono te: io ero io prima di te e continuerò a esserlo dopo di te. Tu invece, sei solo un parassita, senza di me non esisti, non sei nulla.

Ora ti è chiaro chi comanda?

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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The Space In Between.

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Lo scorso martedì sera mi sono imbarcata in una delle mie serate cinematrografiche da solista.
Ho appoggiato il mio sederone nella PandaMobile e sono partita alla volta DEL Multisala (con la M maiuscola), a 20 km da casa, che a differenza dei consimili della mia zona, è abbastanza chic da potersi permettere la proiezione dei “film-evento”.

Attenzione puntata su “The Space In Between”, docu-film che testimonia il viaggio che Marina Abramović ha intrapreso nel 2013 in Brasile, alla ricerca di una spiritualità più profonda e trascendente.

Bello, ma un tantino al di sotto delle aspettative.
L’artista, sessantasettenne all’epoca del viaggio, sembra aver perso smalto e originalità. Condizione accettabile se la si pensa come naturale evoluzione di un essere umano che, col passare degli anni, va incontro a un possibile calo fisiologico d’energia, ma difficile da concepire in relazione a Marina Abramović.

Nonostante questo, si coglie ancora almeno l’ombra di quel che Marina Abramović è stata e, per quanto mi riguarda, è stata comunque una visione interessante.

Ho letto e sentito critiche feroci riguardo questo documentario e mi rendo conto che, forse, il mio giudizio è “ammorbidito” dall’effetto catartico che le performance della Abramović hanno avuto su di me negli anni.

Non posso negare l’oggettività di alcune delle osservazioni mosse contro “The Space In Between”, ma, personalmente, non ho trovato il passaggio dallo scioccare il pubblico al suggestionarlo così disturbante e deludente.

Un percorso che, compiuto da chiunque altro, risulterebbe emozionante, mentre trattandosi di Marina Abramović dà l’idea di essere di essere quasi banale.
Durante il suo viaggio l’artista ha incontrato guaritori e guaritrici rappresentanti di diverse correnti sciamaniche del Brasile e si è sottoposta ad alcuni dei loro rituali purificatori.
A farmi percepire ancora lo spirito di sperimentazione della Abramović è stata la consapevolezza che ben poche persone provenienti da paesi “civilizzati” si sottoporrebbero a pratiche simili, perfino se fossero la loro ultima speranza. Interventi chirurgici eseguiti con strumenti di fortuna e senza anestesia, intrugli potenzialmente letali e permanenze in contesti naturali sconfinati e ostili.

Quel che più mi è rimasto è un insegnamento, tanto semplice da risultare scontato, ma difficile da vivere nella quotidianità:

Ho capito che la felicità non viene dall’esterno, viene da me. Da dentro.

 

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Rompiamo il Silenzio!

 
 

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Eight Days a Week

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Si è conclusa ieri, 21 settembre 2016, la proiezione del film-documentario «Eight Days A Week – The touring years», con cui Ron Howard ha scelto di rendere omaggio alla più grande band di tutti i tempi: The Beatles.

Da che parte cominciare?
Forse dall’immenso rimpianto di non essere vissuta negli anni ’60, quando la musica era più vissuta e meno monetizzata, sia per chi la faceva che per chi l’ascoltava.
Questo non toglie che i grandissimi nomi abbiano fatto soldi a palate, ma il prezzo da pagare era molto più alto di quanto non sia oggi, epoca in cui i “musicisti”, o sedicenti tali, riescono a guadagnare soldi perfino con un semplice e banale click del pubblico.

È stato curioso sentire persone che hanno avuto modo di ascoltare i Beatles “in tempo reale”, lamentarsi perché il film era in inglese con sottotitoli in italiano.
È vero che i sottotitoli attirano lo sguardo distraendolo dall’immagine, ma è vero anche che a me non era neanche passato per la testa che potesse essere doppiato.

Purtroppo non ho mai avuto la buona abitudine di approfondire la biografia dei musicisti che ascolto, lo faccio di rado perfino con gli autori che leggo, quindi figuratevi. Questo documentario, però, è stato un’esperienza commovente, un viaggio nel tempo di due ore e un quarto, un salto indietro di oltre 50 anni che mi ha catapultata in una realtà che mi ha conquistata.
Io, che nel mondo odierno mi sento sempre un po’ fuori luogo, ho scoperto che è esistito un periodo, fra l’altro neanche così lontano, in cui il mio essere alienata a causa di passioni più o meno condivise dalle masse, sarebbe stato la “normalità”. Un periodo in cui l’aspirare a fare della propria arte un’attività a tempo pieno non era visto come un’infantile e idealista utopia.

È stato interessante sentir svelare le origini autobiografiche di alcune canzoni e scoprire di più sulle personalità dei “Fab Four” di Liverpool, al punto che mi sono vergognata a morte dell’immensa ignoranza in cui galleggiavo quando, ragazzina in vacanza studio, mi è capitata la fortuna di visitare il museo loro dedicato proprio a Liverpool.

Con questo film Ron Howard non ha voluto celebrare l’immensa fama dei Beatles, ma ha voluto mostrare quali conseguenze questa fama abbia avuto sulle loro vite, personali e artistiche.
Venticinque concerti in trenta giorni, attraverso tutti gli Stati Uniti. Nella famosissima esibizione allo Shea Stadium di New York City, con 56.000 spettatori in delirio, i visi sono tirati, gli occhi stanchi, nonostante l’evidente sforzo per continuare a sorridere. Il grido d’aiuto di John Lennon nella canzone “Help!” mi ha colpita come un pugno allo stomaco.
La sensazione che ho provato io è stata che un sogno può spiccare il volo, ma se vola troppo in alto e troppo in fretta, non ti lascia il tempo di abituarti all’improvvisa mancanza d’ossigeno, finendo per soffocarti.

È stato davvero tremendo sbattere il naso contro il fatto che anche le aspirazioni più genuine, una volta realizzate, possono trasformarsi da inesauribili forze motrici a inarrestabili schiacciasassi che ti travolgono, annientandoti sotto il loro insostenibile peso.

Mi ha fatto riflettere parecchio sulla fase che sto vivendo.
Su quanto io mi stia perdendo il bello del viaggio perché troppo concentrata sulla meta, senza alcuna certezza che, se mai la raggiungerò, si riveli come io mi ostino a immaginarla.

 

E proprio con quel grido vorrei chiudere questo post, perché rimanga a monito dell’estrema delicatezza con cui sarebbe opportuno maneggiare i sogni.

 

 
 

Rompiamo il Silenzio…
…magari con della buona musica!

 
 

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L’Armata delle Fobie.

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Macchina, un giretto per i negozi, con tappa obbligata in libreria, una piadina farcitissima e super filmone impegnato al cinema.

Tutto da sola.

Erano anni che non lo facevo e devo ammetterlo: ci voleva.

Prima del tracollo medico ero piuttosto conosciuta per la mia autonomia, la mia indipendenza, ma soprattutto per la mia incrollabile fedeltà a me stessa.

Questa serata di libera uscita, però, è stata l’inconfutabile prova che di quella persona è rimasto ben poco.
Un tempo ero l’autista ‘di ruolo’ della comitiva. Amavo guidare, mi rilassava. Ero sicura di me e, avendo sempre guidato macchine piccoline, anche piuttosto agile nel traffico, qualunque fosse la velocità di marcia, da 20 a 130 km/h con nonchalance, non oltre solo perché per la PandaMobile avrebbe significato prendere il volo.

Non avevo alcun problema nell’essere a zonzo da sola: cinema, musei, concerti, ma all’occorrenza anche posta, medico, panettiere, distributore di benzina self-service, sia di giorno che di notte, insomma, qualunque cosa. Nella mia fase da concertara accanita, ad esempio, mi sono girata in lungo e in largo il Nord e Centro Italia con la sola compagnia della PandaMobile, con l’audiocassetta collegata al lettore mp3 sempre nell’autoradio, a volumi folli, e carta e penna sempre in borsa. Ore e ore passate a macinare chilometri cantando a squarciagola le cose più disparate, senza pensare a nulla, con uno spiraglio di finestrino sempre aperto anche d’inverno, dato che nella PandaMobile il meccanismo per spannare i vetri non ha mai funzionato granché.

Martedì scorso, invece, il panico.
Uno strano senso di soffocamento in autostrada: troppe macchine, troppo vicine, troppo veloci, e al ritorno gli occhi che si rifiutano di gestire l’effetto abbagliante dei fanali delle auto provenienti dalla direzione opposta.
Al cinema, il costante timore di perdere il telefono, il portafoglio o le chiavi della macchina e, nel parcheggio, il cuore a mille nell’attraversare l’androne buio che collega l’esterno alle scale che portano all’ingresso del multisala.

Sapevo che sarebbe successo, ma mi ostinavo a negarlo.
Un’intera armata di nuove fobie è di stanza nel fondo del mio stomaco ormai da mesi ma, germofobia a parte, finora ero stata abilissima nel tenerla a bada.

Per quanto liberatoria, è stata una serata di tensione e di rammarico di fronte all’evidente e innegabile incapacità di fare, in serenità, cose che prima facevo senza doverci pensare su.

La verità è che l’AnarcoSocio ha ragione quando si lamenta di quanto logorante sia la sensazione di non riuscire mai a riprendere fiato.
Io ci sono riuscita, ma per farlo ho rinunciato a tutte quelle piccole cose che facevano di me la persona che ero, e ho sbagliato. Ho permesso alla paura, alle mille nuove paure che mi hanno assediata, di avere la meglio, di divorarrmi giorno dopo giorno.

Solo ora ho realizzato: se per ‘respirare’ devo sacrificare quello che amo, quello che mi fa stare bene con me stessa, allora preferisco vivere in apnea.

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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The Eichmann Show

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Un film “difficile”, che però non potevo perdermi.
Io, fervente sostenitrice del “Non dimentichiamo!”, sto faticando molto a non indignarmi di fronte alla “leggerezza” con cui, secondo me, quest’anno si è affrontata la tragica ricorrenza della Giornata della Memoria.
Mi rendo conto che l’attualità ci impone di concentrarci sugli eventi, altrettanto drammatici, del nostro presente: disoccupazione, tagli dei fondi sui servizi fondamentali ai cittadini, come la garanzia di un tetto sopra la testa o l’assistenza sanitaria, terrorismo, razzismo, sanguinarie guerre senza scrupoli in nome della religione e degli interessi economici, e la lista sarebbe ancora molto lunga. Troppo lunga.

La mia opinione è che questa situazione, sempre più insostenibile in qualunque parte del mondo si viva, non dovrebbe distrarci da quanto accaduto nel passato.
Purtroppo sono “cambiate”, se così si può dire, le ideologie, ma non il grado di fanatismo con cui le si persegue.

Quello che accade ogni giorno in molti paesi del mondo non è meno spaventoso di quanto accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale, ma proprio per questo dovremmo guardare a quegli eventi con occhi avidi di conoscenza, oltre che pieni di commozione, per comprendere più a fondo i meccanismi di una situazione che si è rivelata più grande di quanto chiunque avrebbe mai potuto immaginare, una dinamica che è sfuggita al controllo di chi l’aveva innescata. Capire per non inciampare sugli stessi ostacoli, per non ricadere negli stessi errori, per non lasciarsi ingannare dagli stessi tranelli.

Nell’alienazione generale che, ormai da anni, si sta diffondendo come una spietata e inarrestabile epidemia, infettando la nostra vita di tutti i giorni, c’è chi cerca di adeguarsi alle mode e ai dettami del momento per sentirsi protetto dal senso d’appartenenza garantito dalla cieca omologazione, e c’è chi invece da quell’imponente armata di cloni cerca di distinguersi, ma il motore comune è lo stesso: tutti cerchiamo di respirare. Tutti diamo la caccia a uno scampolo di serenità a cui aggrapparci quando la sensazione di stare affogando prende il sopravvento: per restare a galla, per non impazzire, per sopravvivere.

Ecco allora che nel non dimenticare io vedo uno spiraglio di salvezza. Cerco di tenere sempre a mente che milioni di persone sono state costrette all’omologazione contro la loro volontà, fino all’annichilimento, mentre ai fautori dello scempio sfuggiva di mano, fino a ritorcerglisi contro, quella voglia di emergere che li aveva spinti a mettere in moto la più grande operazione di morte di cui la storia sia stata testimone.
Per questo faccio del mio meglio, per non perdere mai di vista il fatto che tutti corriamo verso uno stesso traguardo, il trovare il nostro posto nel mondo, ma che l’unico modo per raggiungerlo è correre senza invadere il percorso altrui, anche se non lo comprendiamo o non lo condividiamo, senza permettere che il bisogno di “arrivare” abbia la meglio.

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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Whiplash

 

La domanda, semplice ma per niente banale:
Da quanto tempo non scrivo solo per il piacere o la necessistà di farlo?
La risposta, implacabile:
Troppo.

Questa lapidaria conversazione con me stessa era lì, latente, appena sotto la superficie, ormai da mesi.

Lo scossone che l’ha fatta emergere è arrivato con la proposta dell’AnarcoSocio, affatto insolita, di andare a vedere un film sul mondo della musica nel cinemino d’essai di cui è da sempre un assiduo frequentatore.

Così ho scoperto Whiplash.
Arrivato in Italia con un ritardo spaventoso, circa due anni, è però piombato nella mia vita al momento giusto.

L’AnarcoPatia non è l’unica robaccia che mi assilla, soffro anche di nostalgia.
Lo sguardo interiore è ormai incantato, fisso su quella me stessa che aveva sempre carta e penna in mano. Mi capita spesso di chiedermi che fine abbia fatto quella stramba grafomane, compulsiva, a tratti psicotica, ma che faticava molto meno a sentirsi se stessa.
Ricordo la foga spontanea, quasi adolescenziale, con cui sfogavo il bisogno di scrivere che, a suo piacimento, aveva sempre la meglio su qualunque altra cosa della mia vita.
Ricordo pagine, reali e virtuali, strabordanti di parole incontenibili, inarrestabili.
Ricordo la sensazione di estenuante leggerezza quando le dita, esauste, mollavano la presa sulla penna o sulla tastiera.
Ricordo frasi ripetute in maniera ossessiva, per dare consistenza ai pensieri che opprimevano la mente; riempivano fogli che morivano fra le fiamme, con l’intenzione di liberarmi dei fantasmi che vi avevo riversato dentro.

Un’accozzaglia confusa di ricordi, ammassati in quell’angolo di cervello dove sbocciava l’ispirazione e fiorivano le idee, incagliati fra le traballanti giustificazioni che negli ultimi mesi mi sono rifilata da sola ogni volta che, dopo aver guardato a lungo la penna, l’ho lasciata dov’era.

Fra tanti ricordi, stracolmi di frustrazione, Whiplash ne ha riportato a galla uno che avevo sepolto ancora più in profondità, forse perché molto più affilato e pericoloso degli altri: la determinazione.
Quell’alienazione assoluta che mi proteggeva dall’imperturbabile e disumana intransigenza della realtà quotidiana.
Quella volontà incrollabile a perseverare, a non arrendermi mai.
Quell’amore incondizionato per le parole che, lettera dopo lettera, dipingevano sulla pagina bianca la me stessa più autentica.

Non credo a chi dice che sognare non costa nulla.
Sono convinta che esista una differenza sottile ma sostanziale fra una fantasia, galvanizzante e del tutto gratuita, e un’aspirazione, che invece richiede impegno e dedizione.
Tutti siamo consapevoli di quali dei nostri sogni rientrino nella prima categoria e quali nella seconda. I sogni, quelli realizzabili, sono buchi neri che inghiottono il tuo tempo, le tue energie, la tua intera vita e, alla fine, vieni inghiottita anche tu, ma quando vieni catapultata dall’altro lato del vortice, il sogno è lì, fra le tue mani.
Il caos è stato tale che non ti sei nemmeno resa conto di come ci sia arrivato, ma quello è il momento in cui capisci che tutti i tuoi sforzi e i tuoi sacrifici non sono stati vani: quello è il momento in cui, dopo tanta fatica, ti senti viva.

E allora, aspettando che Whiplash arrivi in DVD, l’obiettivo è riprendere in mano la mia vita e le mie passioni. Concentrarmi sull’esame di russo, che in questo momento è la priorità più urgente, e poi riorganizzare me stessa in modo da non permettere mai più alle circostanze di prendere il sopravvento.

 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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Io e l’Unicorna.

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Sveglia alle 5:45.
Il tempo fuori fa schifo, freddo e pioggia, ma in fondo le previsioni lo annunciano da giorni, quindi mi limito a constatare che posso abbandonare anche le ultime speranze che si fossero sbagliati.
Incredibile ma vero, con i mezzi fila tutto liscio e alle 9:05 sono in aula.
Tre ore di lezione di russo, durante le quali faccio un altro passo avanti verso la triste consapevolezza che, per i quattro mesi a venire, dovrò riuscire a inventarmi uno stratagemma per ritagliare qualche altra ora nella mia settimana da dedicare allo studio.
Tappa fuori programma per recuperare in anticipo i biglietti del cinema.
Io non ci sono mai stata, ma secondo una mia compagna di corso si tratta di un cinemino, quindi meglio passare prima se si vogliono trovare dei posti decenti.
All’alba delle 13:45 riesco a infilarmi al Self Service, che per fortuna si è già liberato del pienone dell’ora di punta. Un trancio di margherita ingurgitato di corsa e una fetta di torta alla frutta che, seppur buona, ammazza ogni mia aspettativa rivelandosi del tutto priva di una qualsivoglia crema zuccherosa al di sotto del coloratissimo strato fruttoso.
Sono nei tempi, ma più che un sabato di svago mi sembra una maratona.
Attraverso Milano in metropolitana per raggiungere l’AnarcoSocio al parcheggio, scarico in macchina tutto ciò che serviva solo per la lezione, e… torniamo indietro. Ebbene sì, la tappa successiva prevede che io torni proprio alla fermata da cui sono partita solo 25 minuti prima.
Il cinema non è poi così piccolo, ma presumo che la percezione dello spazio di chi è nato e cresciuto a Milano sia un tantino diversa da quella di chi viene da un paesino di provincia in mezzo ai campi. In ogni caso, è un bene avere già i biglietti, perché alla biglietteria c’è la coda e i posti ancora disponibili non sono certo dei migliori.
Dal trailer mi aspettavo tutta un’altra cosa, ma non è importante: Birdman non è affatto male. Tanti spunti, approfonditi quanto basta da renderli interessanti, ma non tanto da annoiare.
Una volta fuori ci rituffiamo nel caos della metropolitana: destinazione Spazio Lambrate. Tutta la giornata è stata organizzata in funzione dell’evento serale, quindi siamo curiosi di arrivare e di scoprire come sarà…

Delusione.
Interessante l’idea, davvero carino il posto, ma l’organizzazione un vero disastro.
La locandina dell’evento è comparsa su internet solo due giorni fa, ma nel frattempo nessuno si è preoccupato di promuoverlo in qualche altro modo. Basta un colpo d’occhio per renderci conto che la partecipazione sarà scarsa. Poco importa, noi siamo lì per sostenere la pittura a olio “live” di un’amica, il resto è un di più.
Ce ne andiamo verso le 22:00, dopo il monologo teatrale.
La fame e il freddo ormai la fanno da padroni.
Io dico: si può organizzare un evento dalle 18:00 alle 22:00, a metà febbraio, senza peroccuparsi di riscaldare l’ambiente e di organizzare un piccolo buffet?
La mia risposta è irremovibile: NO, non si può!

Anche l’amica ne esce amareggiata. Addirittura si scusa.
Non è lei, però, a doversi giustificare. In alcun modo.
Chi dovrebbe, invece, sembra essere in pace col mondo: beata incompetenza.

Decidiamo di annegare la serataccia in un buon boccale di birra, ma la sorte si ostina a non assisterci.
Il birrificio è tanto pieno da poterci a mala pena entrare, figurarsi se sia concepibile la pretesa di un tavolo a cui sedersi per poter rimpinzare a dovere gli stomaci brontolanti.

Io e l’Anarco Socio ci rassegniamo.
Siamo vincolati dagli orari dei mezzi e non possiamo permetterci di tirare tardi.
Salutiamo e ci avviamo verso la metro: 9 minuti di attesa.
I 9 minuti passano, ma il trenino sferragliante ci passa davanti senza fermarsi, con una scritta luminosa che ci informa che il suddetto è “fuori servizio”. Altri 10 minuti.
Attesi con pazienza i 19 interminabili minuti, scendiamo per cambiare linea: altri 6 minuti.
Il treno arriva, ci accasciamo sui sedili, ben 15 fermate ci separano dal parcheggio dove ci aspetta la nostra confortevole, ma soprattutto calda, macchinina.

È mezzanotte.
Siamo in macchina e almeno il problema del freddo l’abbiamo risolto.
I pancini però si sono fatti rabbiosi, quindi non possiamo ancora rilassarci.
Suo malgrado, con uno sforzo disumano, l’Anarcosocio propone il McDonald’s a pochi minuti da casa mia, sempre che sia aperto, dato che non saremo lì prima dell’una di notte.
Controllo. Il sabato notte chiude alle due: sarebbe fattibile.
La tentazione c’è, anche se mi chiedo fin da subito quando digerirei il tutto, ma poi una lampadina si accende nel mio cervello annebbiato dal freddo e dalla fame: l’Autogrill.
Di sicuro lì ci sarà qualcosa di buono anche per il mio vegetarianissimo compare e per l’onnivora sottoscritta ci sarà l’imbarazzo della scelta.
La trovata si conferma vincente!
Paninone al sesamo con cotoletta di pollo, insalata, pomodoro e salsa tartara, mentre l’AnarcoSocio, meno avvezzo a ingollare schifezze, si lancia su una focaccia con i pomodorini, il tutto accompagnato da due ottime spremute d’arancia. Il “lauto” spuntino notturno si chiude con la condivisione di un Mars: 10% all’AnarcoSocio, il resto a me!
Esco dall’Autogrill saltellando, per lo meno col pensiero, dato che la devastante stanchezza non mi permette di farlo anche con le gambe. In mano due peluches morbidosi con gli occhioni enormi e tanto dolci: una tartaruga per me e un’unicorna (perché io ho deciso che è femmina) per l’AnarcoNipotina.

Di nuovo in macchina: direzione cuscino!

Ammesso che a qualcuno possa interessare, ho trascorso la domenica mettendo in atto profetiche minacce fatte all’AnarcoSocio almeno due giorni prima: ronf, ronf, ronf…

 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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Il Caso Non Esiste.

 

Tutto succede per un motivo. Nulla accade per caso.

Sarà vero?

Non saprei… Ma ogni giorno che passa mi convinco che, tutto sommato, provare a crederci non sarebbe una cattiva idea.

Chi non ci crede continua a rodersi nella domanda delle domande:

Perché?

O meglio ancora: Perché a me?
La risposta, l’unica onesta, è che una risposta non la si troverà mai.

Chi ci crede, invece, incassa il colpo proprio come gli appartenenti alla fazione avversaria, ma ha il galleggiante di salvataggio: la convinzione.
Convinzione che, presto o tardi, si manifesterà una sorta di illuminazione che rivelerà la lezione che l’increscioso episodio aveva da insegnare.
Convinzione che la catastrofe finirà per mostrare la sua vera natura, ovvero una manna dal cielo.
Convinzione che alla fine si arriverà a pensare: “Meno male che è andata così e non come avevo programmato all’inizio.”.

In questo momento, i miei tentativi di diventare una “credente” sono disperati, perché ho bisogno di crederci.
Ho bisogno di imparare a cullarmi nella cieca convinzione che presto sarà tutto finito e che capirò che questo periodaccio mi era non necessario, ma indispensabile per poter passare alla fase successiva della mia vita, qualunque essa sia, anche se mi auguro non sia peggiore (come se fosse possibile… -.-“).

E allora, come direbbe Po, voglio almeno provare a diventare “tutta mistica e kungfuica” perché… il caso non esiste.

Spero…

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L’Incubo per Eccellenza!

Rincoglionitissima…! -.-”

Le lezioni di russo sono finite, ma so per certo che, se non trovo il modo di tenermi in allenamento, il soggiorno a Pietroburgo finirà per rivelarsi un’inesauribile fonte di imbarazzanti silenzi e figure di m***a!

Così è partito il delirio.
I miei strambi metodi da autodidatta creativa stanno già prendendo il sopravvento, e il livello di rimbecillimento di stamattina conferma che forse non sono proprio un asso in questa cosa.

In effetti comincio a pensare che tirare l’una, con la sveglia alle sei meno un quarto, guardando cartoni animati in russo non sia stata un’idea geniale, ma… ne è valsa la pena! ;D

Voi avreste forse abbandonato a metà???

 

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