Archivi del mese: gennaio 2017

In memoriam. 2017

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Giornata della Memoria 2017

minoranza

 

Oggi vorrei dedicare solo una piccola riflessione a chi, in quanto considerato parte di una presunta minoranza, subisce ingiustizie e angherie di ogni tipo.

Trovo che il concetto di “minoranza” sia davvero labile e relativo, e proprio la Shoah è stata la più tremenda dimostrazione di questa ipotesi: la “minoranza” rappresentata dal popolo ebraico, infatti, si è poi rivelata ammontare a un totale di circa sei milioni di persone, non proprio una cifra insignificante.

Fin da ragazzina mi sono interessata a questo tema, leggendo, guardando film e documentari, ma da tre anni a questa parte, da quando io stessa mi sono ritrovata a essere bersaglio impotente delle quotidiane iniquità riservate a un’altra presunta minoranza, quella dei malati rari, preferisco rendere un omaggio più quieto.

Così il 27 Gennaio è diventato uno di quei rarissimi giorni dell’anno in cui rinuncio al mio mantra, inneggiando, una volta ogni tanto, a un assoluto e rispettoso…

… Silenzio.

 
 

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Fino alle ginocchia nell’argento, fino al petto nell’oro.

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In un certo reame, c’era una volta un mercante che aveva due figlie; attaccò dei manifesti per tutto il paese: il principe che avrebbe sposato la sua figlia minore avrebbe avuto da lei tre figli — fino alle ginocchia nell’argento, fino al petto nell’oro, con la luna splendente in fronte, con le tempie scintillanti di stelle. Venne da un altro paese il principe Ivan e sposò la figlia del mercante; vissero insieme un anno, quella rimase incinta e partorì un figlio — fino alle ginocchia nell’argento, fino al petto nell’oro, con la luna splendente in fronte, con le tempie scintillanti di stelle. La sorella maggiore, invidiosa, corruppe la levatrice; quella prese il bambino, lo trasformò in un colombo e lo lasciò volare via in aperta campagna; arrivò dal principe e dice: «Tua moglie ha partorito un gattino!». Il principe si arrabbiò, ma decise di aspettare il secondo figlio.
Il secondo anno, la figlia del mercante gli partorì un bimbo eccezionale come l’altro; la levatrice lo trasformò in un colombo, lo lasciò volare via in aperta campagna e disse al principe che la moglie aveva partorito un cagnolino. Il principe si adirò non poco, ma ritenne opportuno aspettare il terzo figlio. Ma anche la terza volta tutto andò come le prime due; la levatrice trasformò il ragazzino in colombo, e riferì al principe che non gli era nato un bambino ma un tronchetto d’albero. Tutti e tre i fratelli colombi si riunirono e volarono ai confini del mondo, in un regno al di là dei monti e degli oceani. Il principe decise di aspettare un quarto figlio; ma il quarto figlio era un normalissimo bambino: né nell’oro, né nell’argento, senza stelle, senza luna. Quando il principe lo seppe, subito convocò i suoi duchi e nobili; discussero-si accordarono e tutti insieme deliberarono: bisognava chiudere la principessa e il suo bambino in una botte, sigillarla con il catrame e gettarla in mare.
Li misero dunque in una botte e li gettarono in mare; la botte galleggia sempre più in là, mentre il figlio della principessa cresce non a ore, ma a minuti. Le onde spinsero la botte fino a un’isola, dove si ruppe contro gli scogli. Il figlio e la madre uscirono sull’isola, presero a guardarsi intorno, per vedere se c’era un posto in cui vivere. Entrarono in un fitto bosco e il figlio vide che in una stradina c’era per terra un sacchetto di pelle; lo tirò su e si rallegrò: nel sacchetto di pelle trovò una selce e un acciarino col quale poter accendere un fuoco. Allora strofinò l’acciarino e la selce — subito saltarono fuori un’ascia e un bastone: «Cosa ordinate di fare?». «Costruiteci un palazzo e che ci sia da mangiare e da bere!» L’ascia si mise a tagliare, il bastone i pali a infilare, e in un attimo costruirono un palazzo talmente bello come non ce n’era mai stato in nessun altro paese — da non pensare, né indovinare, né in un libro narrare, né nelle favole raccontare! E nel palazzo c’è di tutto a volontà; qualunque cosa ti venga in mente, lì c’è!
Passarono davanti all’isola dei mercanti-negozianti, rimasero affascinati da quel palazzo; arrivarono nel regno del principe Ivan, mentre già il principe Ivan si era risposato. Appena le navi con le mercanzie giunsero a riva, subito i mercanti andarono dal principe col loro rapporto e con dei regali. «Salute avoi, mercanti-negozianti!» dice loro il principe Ivan. «Avete solcato molti mari, avete visitato molte terre; non avete nessuna novità da raccontarmi?» Rispondono i mercanti che nel mare-oceano, nella tal isola, fino a quel momento c’era solo un fitto bosco e dei briganti: non si sarebbe potuto andare né a piedi, né a cavallo; ma adesso vi sorgeva un palazzo come non ce n’erano altri al mondo! E viveva in quel palazzo una bella principessa con suo figlio.
Il principe Ivan decise di andare sull’isola; vuole andare, per vedere di persona quella meraviglia. Ma la sorella maggiore-malfattrice tenta di dissuaderlo: «Ma che meraviglia è!» dice. «Questa sì che è una meraviglia: in un paese ai confini del mondo, in un regno al di là dei monti e degli oceani, c’è un giardino verde; in quel giardino c’è un mulino: macina spula da solo e lancia la polvere a cento verste; accanto al mulino, c’è un palo d’oro, al quale è appesa una gabbia d’oro, e un gatto ammaestrato cammina su quel palo: scende giù — canta delle canzoni, sale su — racconta delle favole».
I mercanti ripartirono e andarono a far visita alla principessa sull’isola; quella riserva loro una calorosa accoglienza, li ospita con piacere. Una cosa, l’altra, iniziarono a conversare; i mercanti raccontarono di essere stati dal principe Ivan, che voleva venire nell’isola per vedere il palazzo, ma la sorella maggiore lo aveva dissuaso. Il figlio della principessa, che aveva sentito tutto, appena le navi dei mercanti ebbero salpato, tirò fuori il suo sacchetto di pelle, strofinò l’acciarino e la selce — subito saltarono fuori l’ascia e il bastone: «Cosa ordinate di fare?». «Che domani intorno al nostro palazzo ci sia un verde giardino, e nel giardino ci sia un mulino, che macini e spuli da solo e che lanci la polvere a cento verste; che accanto al mulino ci sia un palo d’oro, al quale sia appesa una gabbia d’oro, e che cammini su quel palo un gatto ammaestrato!» Il giorno dopo si svgliarono la principessa e il figlio, e tutto era già stato eseguito: intorno al palazzo c’è il giardino, nel giardino il mulino, accanto al mulino il palo d’oro, e il gatto ammaestrato che canta e racconta favole. Passò un mese o un anno, ripassano davanti all’isola i mercanti-negozianti, rimangono affascinati da quella meraviglia; vide le vele bianche il figlio della principessa, si trasformò in una mosca, volò e si andò a mettere sulla nave.
Arrivano le navi nel regno del principe Ivan, si accostarono a riva, gettarono le ancore, e si diressero i mercanti a palazzo col rapporto e i regali; la mosca volò dietro a loro. «Salute a voi, mercanti-negozianti, uomini d’esperienza!» dice il principe Ivan. «Avete solcato molti mari, avete visto molte terre diverse, non avete nessuna novità da raccontarmi?» Rispondono i mercanti: «Nel mare-oceano, nella tal isola, fino a oggi c’era solo un fitto bosco e dei briganti: non si sarebbe potuto andare né a piedi, né a cavallo; ma ora vi sorge un palazzo come non ce n’è altri al mondo! Vive in quel palazzo una bella principessa con suo figlio. Intorno al palazzo c’è un verde giardino, nel giardino c’è un mulino: macina e spula da solo e lancia la polvere a cento verste, e accanto al mulino c’è un palo d’oro, al quale è appesa una gabbia d’oro, e un gatto ammaestrato cammina su quel palo: scende giù — canta delle canzoni, sale su — racconta delle favole». Il principe Ivan decise di andare sull’isola, vuole vedere di persona quelle meraviglie; ma la sorella maggiore-malfattrice tentava di trattenerlo-dissuaderlo: «Ma che meraviglia è!» dice. «Questa sì che è una meraviglia: in un paese ai confini del mondo, in un regno al di là dei monti e degli oceani, c’è un pino d’oro, sul quale stanno degli uccelli del paradiso e intonano un canto melodioso!». Allora la mosca, furiosa, pizzicò la zia sul naso — e via dalla finestra!
Volò fino a casa il figlio della rincipessa sotto forma di mosca, ridivenne un bel giovane, tirò fuori la selce e l’acciarino, strofinò — saltarono fuori l’ascia e il bastone: «Cosa ordinate di fare?». «Che per domani ci sia nel giardino un pino d’oro, sul quale stiano degli uccelli del paradiso e intonino un canto melodioso!» Il giorno dopo si svegliarono la principessa e il figlio: il pino già era nel giardino. Di nuovo passarono davanti all’isola i mercanti-negozianti, rimasero affascinati da quella meraviglia; arrivarono nel regno del principe Ivan, mentre il figlio della principessa si era trasformato in zanzara e li aveva seguiti sulle navi. «Salute a voi, mercanti-negozianti, uomini d’esperienza!» dice il principe Ivan. «Avete solcato molti mari, avete visto molte terre diverse; non avete nessuna novità da raccontarmi?» Gli rispondono i mercanti: «Nel mare-oceano, nella tal isola, vive in un palazzo una bella principessa con suo figlio; intorno al palazzo c’è un verde giardino, in quel giardino c’è un mulino: macina e spula da solo e lancia la polvere a cento verste; accanto c’è un palo d’oro con una gabbia d’oro, e cammina su quel palo un gatto ammaestrato: scende giù — canta delle canzoni, sale su — racconta delle favole. E cresce nel giardino un pino d’oro, sul quale stanno degli uccelli del paradiso e intonano un canto melodioso!». Il principe Ivan decise di andare sull’isola, vuole vedere quelle meraviglie; ma la sorella aggiore-malfattrice lo trattiene: «Ma che meravigliaè! Questa sì che è una meraviglia: in un paese ai confini del mondo, in un regno al di là dei monti e degli oceani, ci sono tre fratelli, fino alle ginocchia nell’argento, fino al petto nell’oro, con la luna slendente in fronte, con le tempie scintillanti di stelle!». Allora la zanzara, furiosa, pizzicò più forte della volta precedente la zia sul naso, si mise a ronzare — evia dalla finestra! Volò fino a casa, ridivenne un bel giovane e raccontò tutto alla madre. «Ah» dice la principessa «quelli sono i miei figli e i tuoi fratelli!» «Vado a cercarli!»
Passò un mese, passò un anno, giunse il figlio della principessa nel regno al di là dei monti e degli oceani; guarda: c’è una casa in mezzo a una radura. «Andiamo un po’ a riposarci!» Entra nella casa: c’è un tavolo apparecchiato, sul tavolo ci sono tre pani sacri e tr bottiglie di vino; ma non un’anima! Allora mangiò un boccone da ogni pane, bevve un sorso da ogni bottiglia e si nascose dietro la stufa. All’improvviso arrivano in volo tre colombi, si gettarono al suolo e divennero dei bei ragazzi: fino alle ginocchia nell’argento, fino al petto nell’oro, con la luna splendente in fronte, con le tempie scintillanti di stelle. Si avvicinarono al tavolo, guardano: i pani sacri erano cominciati, il vino anche, e dicono tra loro: «Se fosse stato un ladro, avrebbe preso tutto; ma questo ha solo dato un assaggio… evidentemente ci è venuto a far visita un brav’uomo!». Il fratello minore, che aveva sentito tutto, uscì da dietro la stufa e dice: «Salve, fratelli! La mamma mi manda a salutarvi e vi prega di andare da lei». Che gioia! Che allegria! Dopodiché si gettarono tutti e quattro al suolo, si trasformarono in colombi e volarono dalla loro madre.
Poco dopo passarono davanti all’isola le navi dei mercanti. I mercanti-negozianti guardano l’isola e rimangono affascinati… Navigarono fino al regno del principe Ivan, andarono da lui col rapporto e i regali. Quello chiese loro: «Non avete nessuna novità da raccontarmi?». I mercanti gli raccontarono di quell’isola meravigliosa: «E in quell’isola vive una bella principessa con quattro figli; tre figli sono di una bellezza indescrivibile: fino alle ginocchia nell’argento, fino al petto nell’oro, con la lune splendente in fronte, con le tempie scintillanti di stelle! Vanno a passeggio per il giardino e lo illuminano tutto!». Il principe Ivan non rimandò più, salì su una nave e navigò verso l’isola; lì gli vengono incontro la moglie e i quattro figli. Si baciarono, si abbracciarono, si fecero un sacco di domande sul passato. Quando il principe Ivan venne a sapere tutto quel che era successo, subito diede ordine di fucilare la sorella maggiore-malfattrice, ripudiò la sua seconda moglie, riprese a vivere con la pria e vissero felici e contenti.

 

♦ “Masha e l’Orso e altre fiabe popolari russe”,
Raccolte da A. N. Afanas’ev

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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Koz’ma Prestoricco.

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C’era una volta il povero Koz’ma, che campicchiava solo soletto, proprio nel mezzo di un fitto boschetto; aveva solo una povera casetta, un galletto e cinque polletti. Una volpe divenne assidua frequentatrice di questo Koz’ma; una volta lui andò a caccia: era appena uscito di casa che piombò la volpe; arrivò di corsa, sgozzò un polletto, lo arrostì e se lo gustò. Tornò il povero Koz’ma e non c’erano più che quattro polletti! Pensa: probabilmente lo ha portato via un nibbio. Il giorno dopo andò di nuovo a caccia. Gli si fa incontro la volpe e chiede: «Dove te ne vai, caro Koz’ma?». «A caccia, comare volpe!» «Allora, addio!», e subito corse nell’izbà di lui, sgozzò un altro polletto, lo arrostì e se lo gustò. Arrivò a casa il povero Koz’mz e non c’erano più che tre polletti! Lo sfiorò un dubbio: «Non sarà stata la volpe a mangiarsi i miei polleti?».
Il terzo giorno, allora, inchiodò solidamente porte e finestre della sua izbà, e poi partì per la caccia. Saltò fuori la volpe e chiede: «Dove te ne vai, caro Koz’ma?». «A caccia, comare volpe!» La volpe, allora, corse alla casa del povero Koz’ma, e anche lui tornò sui suoi passi. Arrivata alla casa, la volpe ci girò intorno e vide che porte e finestre erano state inchiodate solidamente: come entrare nell’izbà? Decise di scendere per il camino. Allora Koz’ma agguantò la volpe. «Guarda guarda» dice «ecco chi è il ladro che mi fa visita. Ferma, comare, ora non ti lascerò uscire viva dalle mie mani!» La volpe prese a supplicare Koz’ma: «Non mi uccidere! Io farò di te Koz’ma Prestoricco, se arrostisci per me un polletto con parecchio burro». Il povero Koz’ma accondiscese e la volpe, dopo aver gustato una cena tanto grassa, corse ai prati riservati dello zar e iniziò a rotolarsi su quei prati riservati.
Arriva di corsa il lupo e dice: «Ehi tu, maledetta volpe! Dove ti sei abboffata a quel modo?». «Ah, compare lupo carissimo! Sono stata a un banchetto dello zar. Forse non ti hanno invitato, compare? Eravamo in tanti, animali di tutte le razze, martore, zibellini, una folla enorme!» Il lupo chiede ancora: «Comare volpe, non porteresti anche me a cena dallo zar?». La volpe glielo promise e gli raccomandò di radunare quaranta volte quaranta lupi grigi e di portarli con sé. Il lupo mise insieme quaranta volte quaranta lupi grigi. La volpe li condusse dallo zar; appena arrivata, entrò di volata nelle sale di pietra bianca e offrì allo zar quaranta volte quaranta lupi grigi da parte di Koz’ma Prestoricco. Lo zar ne fu entusista, ordinò di far entrare tutti i lupi in un recinto e di chiuderli fermamente. La volpe, intanto, si precipitò dal povero Koz’ma: arrivò, ordinò di arrostire un altro polletto; mangiò a sazietà e se ne tornò ai prati riservati, dov riprese a rotolarsi sull’erba.
Passa di lì un orso, vede la volpe e dice: «Ehi tu, maledetta civetta, ti sei proprio abboffata!». Quella risponde: «Sono stata ospite dello zar; eravamo in tanti, animali di tutte le razze, martore, zibellini, una folla enorme! E ne sono rimasti ancora: ora è la volta dei lupi. Tu sai bene, caro compare, come sono ingordi! Per tutta la festa non hanno mai smesso di mangiare». Miška chiede ancora: «Comare volpe, non porteresti anche me a cena dallo zar?». La volpe acconsentì e gli raccomandò di radunare quaranta volte quaranta orsi bruni: «Lo zar non può disturbarsi per te solo». Miška mise insieme quaranta volta quaranta orsi bruni. La volpe li condusse dallo zar: appena arrivata, gli offrì quaranta volte quaranta orsi bruni da parte di Koz’ma Prestoricco. Lo zar, molto contento, ordinò di farli entrare e di chiuderli fermamente. La volpe, intanto, si diresse dal povero Koz’ma; arrivò e ordinò di arrostire per lei l’ultimo polletto con il galletto. Il povero Koz’ma, senza esitare, arrostì per lei l’ultimo polletto e il galletto; la volpe se li gustò e buon pro le fece; poi tornò ai prati riservati, dove riprese a rotolarsi sull’erba verde.
Passa di lì una martora insieme a uno zibellino e chiede: «Ehi tu, volpe astuta, dove ti sei abboffata a quel modo?». «Ah, martora e zibellino! Lo zar mi tiene in gran conto. Oggi fa una festa e offre da mangiare a tutti gli animali; sono quasi rimbambita dalla roba buona che ho mangiato; e quanti animali c’erano a quel pranzo, a non finire! Mancavate solo voi. Conoscete certo i lupi, come sono voraci, quasi che non avessero mangiato mai in vita loro, stanno ancora ingozzandosi dallo zar! E che dire di Miška zampone: mangia tanto che finirà per strozzarsi!» La martora e lo zibellino iniziarono a pregare la volpe: «Comare, porta anche noi dallo zar; daremo almeno un’occhiata». La volpe acconsentì e ordinò loro di radunare quaranta volte quaranta martore e zibellini. Li radunarono; la volpe li condusse a palazzo e offrì allo zar quaranta volta quaranta martore e zibellini da parte di Koz’ma Prestoricco. Lo zar si meravigliò della ricchezza di Koz’ma Prestoricco, con gioia accettò il dono e ordinò di uccidere tutti gli animali e di scuoiarli.
Il giorno dopo, la volpe di nuovo corse dallo zar e dice: «Vostra Altezza Reale! Koz’ma Prestoricco mi ordina di porgerti i suoi omaggi e di chiedere un secchio da un pud; bisogna misurare le sue monete d’argento. I suoi secchi sono tutti pieni d’oro». Lo zar, senza farsi pregare, diede alla volpe il secchio da un pud. Quella corse dal povero Koz’ma e gli disse di mettere nel secchio della sabbia, per far risplendere l’interno da far rabbia! Quando l’interno fu splendente, quella ficcò nelle fessure dei soldini spiccioli e lo riportò allo zar. Arrivò da lui e chiese insistentemente la mano della bella principessa per Koz’ma Prestoricco. Lo zar non dice di no, fa dire a Koz’ma di prepararsi per bene e di venire. Si mise in cammino il povero Koz’ma per andare dallo zar, mentre la volpe corse avanti e assunse degli uomini per segare un ponticello. Il povero Koz’ma aveva appena messo il piede sul ponticello che il ponticello e lui insieme finirono nell’acqua. La volpe si mise a gridare: «Aiuto! È caduto Koz’ma Prestoricco!». Lo zar sentì e subito mandò alcuni dei suoi servitori a ripescare Koz’ma. Ecco che quelli lo ripescarono, lo rivestirono con un abitolussuoso e lo condussero dallo zar.
Quello sposò la principessa e visse dallo zar una settimana o due. «Allora» dice lo zar «caro genero, è ora che veniamo ospiti da te». Koz’ma non poté farci nulla, ci si dovette preparare. Attaccarono i cavalli e si misero in strada. La volpe, intanto, era corsa avanti. Corse, corse e vide dei pastori che pascolavano un gregge di pecore; chiede loro: «Pastori, pastori! Di chi è il gregge che pascolate?». I pastori rispondono: «È il gregge dello zar Zmiulan». La volpe diede loro delle istruzioni: «Dite a tutti che questo gregge è di Koz’ma Prestoricco e non dello zar Zmiulan; stanno per passare lo zar Fuoco e la zarina Caterina; se non direte loro che questo gregge è di Koz’ma Prestoricco, quelli vi bruceranno tutti e vi ridurranno in cenere, comprese le pecore». I pastori vedono che le cose si mettono male, bisogna obbedire, e promettono di dire a tutti che il gregge è di Koz’ma Prestoricco, come ha insegnato loro la volpe.
La volpe continuò a correre avanti; vede dei guardiani di porci, e chiede: «Pastori, pastori! Di chi sono quei porci?». «Dello zar Zmiulan». «Dite che sono di Koz’ma Prestoricco, stanno per passare lo zar fuoco e la zarina Caterina; vi bruceranno tutti e vi ridurranno in cenere, se solo nominerete lo zar Zmiulan». I pastori acconsentirono. La volpe corse ancora avant; raggiunge una mandria di vacche dello zar Zmiulan, poi una mandria di cavalli e ordina ai pastori di dire che quelle mandrie sono di Koz’ma Prestoricco, di non nominare, invece, lo zar Zmiulan. Raggiunge la volpe anche una mandria di cammelli. «Pastori, pastori! Di chi sono questi cammelli?» «Dello zar Zmiulan». La volpe vietò loro fermamente di nominare lo zar Zmiulan, ordinò invece di dire che quella mandria era di Koz’ma Prestoricco, altrimenti lo zar Fuoco e la zarina Caterina avrebbero bruciato e ridotto in cenere tutta la mandria!
La volpe corse ancora avanti, arriva al reame dello zar Zmiulan e va dritta nelle sale di pietra bianca. «Che mi racconti, comare volpe?» «Be’, zar Zmiulan, ora è meglio nascondersi, e in tutta fretta. Stanno arrivando il terribile zar Fuoco e la zarina Caterina, che bruciano e riducono in cenere tutto quel che capita. Hanno bruciato già le tue mandrie e i tuoi pastori; prima il gregge, poi i porci, poi le vacche e poi i cavalli. Io mi sono precipitata da te senza perder tempo, ma a momenti morivo soffocata dal fumo!» Lo zar Zmiulan si desolò-si amareggiò: «Ah, volpe, e dove mi vado a mettere?». «C’è nel tuo giardino una vecchia quercia il cui interno è scavato; corri e nasconditi là dentro, finché quelli non saranno passati». Lo zar Zmiulan si decise in un attimo e, secondo le istruzioni, fece tutto quello che la volpe gli aveva detto.
Intanto Koz’ma Prestoricco se ne va in carrozza e va con la moglie e il suocero. Arrivano al gregge. La giovane principessa chiede: «Pastorelli, patorelli, di chi è questo gregge?». «Di Koz’ma Prestoricco», rispondono i pastori. Lo zar era molto soddisfatto: «Bene, caro genero, hai molte pecore». Proseguono, arrivano ai porci. «Pastorelli, pastorelli» chiede la giovane principessa «di chi sono questi porci?» «Di Koz’ma Prestoricco». «Bene, caro genero, hai molti porci». Proseguono, avanti, sempre più avanti; qui pascolano la mandria di vacche, là quella di cavalli, più in là quella di cammelli. Chiedono ai pastori: «Di chi è questa mandria?», tutti rispondono come un sol uomo: «Di Koz’ma Prestoricco».
Arrivarono dunque al palazzo dello zar; la volpe li accoglie e li conduce nelle sale di pietra bianca. Lo zar entrò e si meravigliò: che magnificenza! E giù a festeggiare, a divertirsi, a bere e a mangiare! Rimangono lì un giorno, rimangono una settimana. «Allora, Koz’ma» dice la volpe «smetti di far baldoria, è ora di mettere a posto i tuoi affari. Vai con tuo suocero nel verde giardino; nel giardino c’è una vecchia quercia, nella quercia c’è lo zar Zmiulan: si nasconde da voi. Sparate sull’albero fino a farlo a pezzettini!» Allora il povero Koz’ma, secondo le istruzioni, andò nel verde giardino col suocero, e si misero a sparare sulla quercia e uccisero lo zar Zmiulan. Koz’ma Prestoricco salì al trono di quel reame, visse felice e contento con la principessa, e ancora oggi stanno bene, non gli manca mai il pane. Ogni giorno nutrono la volpe con dei bei polli e quella resterà nel loro palazzo finché non ci sarà più un volatile sul terrazzo.

 

♦ “Masha e l’Orso e altre fiabe popolari russe”,
Raccolte da A. N. Afanas’ev

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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Boh… Blogger

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Viviamo un momento costellato di blogger: Fashion Blogger, Food Blogger, Travel Blogger e via di seguito, ma chi era un semplice blogger prima che la blogosfera finisse sotto le luci della ribalta, che tipo di blogger è?
Come dovrebbe definirsi chi, come me, ha iniziato a scrivere il proprio blog così tanto tempo fa da averlo “inaugurato” su piattaforme che si sono estinte ormai da anni? Bei tempi in cui ancora i blogger non millantavano super competenze in un qualche campo, ma si limitavano a trasporre nella più tecnologica versione in pixel il caro, vecchio diario personale.

Ho iniziato a scrivere quando avevo nove, dieci anni. Riempivo pagine e pagine di parole, in tutte le forme possibili e immaginabili: racconti, diario, poesie. Rivedevo, rifinivo, perfezionavo fino allo sfinimento, per poi copiare tutto con cura nei quaderni “in bella”.
Più o meno intorno ai quindici, sedici anni la scoperta dell’esistenza della blogosfera e il mio ingresso, da principio forse un po’ timoroso, in questo affascinante e poliedrico universo. Ricordo ancora con un sorriso le espressioni perplesse alla frase “Scrivo su un blog…”, quando ancora quasi nessuno sapeva cosa diavolo fosse un blog, e l’orgoglio di essere in qualche modo innovativa e fuori dal coro. L’esordio su una piattaforma che, finché è durata, mi ha dato modo di dilettarmi acnhe con le mie dubbie capacità grafiche e di imparare le basi dei codici html, perché la personalizzazione del proprio blog era questione di buona volontà: non c’erano i moderni e intuitivi strumenti di oggi, se volevi emergere dalla massa dovevi sbatterti e imparare ad arrangiarti.

Gli anni sono passati e, giunta alla veranda età di 32 anni, mi sento sempre più disorientata di fronte alla super tecnologica schermata bianca di WordPress.
Il sovraffollamento di blogger iper-competenti, ultra-specializzati, pluri-“followati” mi fa sentire piccola piccola e piuttosto insignificante.
Innanzi tutto, d’improvviso sembrano essere diventati tutti grandi scrittori, cosa che, ahimè, proprio non è. In contraddizione con questo, però, si staglia l’innegabile evidenza che a contare sia sempre più la mole di contenuti prodotti e non la loro reale qualità.
Se si vuole “diventare qualcuno” , essere fedeli al tema del proprio blog è un imperativo inoppugnabile, ma io, creatura ormai vetusta, trovo che questo altro non sia che un meschino ingabbiare il pensiero. La mente umana, così come la meravigliosa vastità del lessico, non sono fatte per rimanere rinchiuse in compartimenti stagni. Così non si fa altro che spacciare per prolifica creatività un costante e svilente riproporre la stessa pietanza in tutte le salse possibili e immaginabili.

Ogni giorno che passa è più palese che io appartenga all’epoca in cui i blog erano luoghi di riflessione e di profonda introspezione, mentre oggi, per buona parte, sono diventati strumenti lavorativi e/o pubblicitari.
Più volte ho pensato che avrei potuto approfittare della mia esperienza per auto-promuovermi o per sostenere e far conoscere le attività a cui vorrei dedicarmi dal punto di vista lavorativo, ma non ci sono mai riuscita.
Credo sia un po’ come quando vado in vacanza. Potrei fare qualche bella fotografia, scegliere con calma l’inquadratura migliore, modificarla con una qalche applicazione e inviarla alle persone più care, parenti e amici, ma non ce la faccio: alla fine preferisco sempre affidarmi alle care vecchie cartoline postali.

Questa nuova percezione del blog mi mette una gran tristezza, destabilizza il mio concetto originario di scrittura e, sempre più spesso, mi lascia disorientata riguardo al come continuare a rapportarmici.

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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Io sono lo scrittore.

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Io sono lo scrittore.
È così che mi chiamano tutti. I miei amici, i miei genitori, i miei parenti, e anche le persone che non conosco e che tuttavia mi riconoscono in un luogo pubblico e mi dicono: “Lei non è quello scrittore…?” Io sono lo scrittore: è la mia identità.
La gente crede che, in quanto scrittore, la tua vita sia abbastanza tranquilla. Recentemente un mio amico, dopo essersi lamentato per i suoi spostamenti quotidiani tra casa e ufficio, mi ha detto: “Tu, in fondo, la mattina ti alzi, ti siedi alla scrivania e scrivi. Tutto qua.” Non gli ho risposto niente, forse per lo sconforto di rendermi conto fino a che punto, nell’immaginario collettivo, il mio lavoro consista nel non far niente. La gente pensa che non combini nulla, ma è proprio quando non fai niente che lavori di più.
Scrivere un libro è come aprire una colonia estiva. La tua vita, in genere solitaria e tranquilla, viene improvvisamente scombussolata da una moltitudine di personaggi che un giorno giungono senza preavviso e ti stravolgono l’esistenza. Arrivano una mattina, a bordo di un grande pullman, dal quale scendono rumorosamente, eccitati per il ruolo che hanno ottenuto. E tu devi rassegnarti, devi occupartene, devi dargli da mangiare, devi ospitarli. Sei responsabile di tutto. Perché tu, appunto, sei lo scrittore.

♦ “Il libro dei Baltimore”,
di Joël Dicker

 

Lunedì, nel “mondo là fuori”, la vita di tutti i giorni ha ripreso il suo corso.
Io, ancora blindata in casa grazie a una nuova fase acuta di AnarcoPatia, ho scelto di riprendere con questo paragrafo, che apre il primo capitolo de “Il libro dei Baltimore”, l’ultimo romanzo di Joël Dicker, nella speranza che possa essere profetico e portarmi fortuna.

Mi piace molto l’immagine creata da Dicker.
Non è necessario che si tratti di romanzi, e nemmeno di veri e propri personaggi, quando ti metti a scrivere subisci un assedio, un’invasione: immagini, luoghi, suoni, colori, profumi. Interi mondi si riversano nella tua testa da passaggi segreti invisibili, per lasciarla solo quando sta bene a loro.

La prima volta che mi sono ritrovata allettata, ero convinta che avrei scritto tantissimo, invece niente. Al di là delle vene esplose a causa dei farmaci nelle flebo, che mi rendevano quasi impossibile qualsiasi movimento delle dita, la cosa più grave era la testa del tutto vuota. Nessuna idea, zero.

Mi ero convinta che le parole sarebbero state il mio ponte di salvezza per attraversare l’impervio fiume della malattia in cui mi sentivo affogare, ma non è stato così. È subentrato un inaspettato silenzio mentale che mi ha portata a rimuginare sulle cose più di quanto io non facessi già di mio, rendendomi una persona rabbiosa, rancorosa e pessimista.

Questa volta, però, vorrei che fosse diverso.
Risfoderati i libri del caso, mi sono riarmata di carta e penna e mi sono rimessa a studiare e a esercitarmi.
Mi ci sono voluti tre anni, ma c’è una lezione che, alla fine, sono stata costretta ad imparare, ed è questa: quando il corpo non ti assiste, punta tutto sulla mente.
Concentrati su quello che sai e su come trasformarlo in un’opportunità di svolta, approfondisci e specializzati, così da poterti dedicare a quello che ti piace e ti appassiona, magari riuscendo anche a trarne dei progetti innovativi o un qualcosa di unico da offrire sul piano professionale, a cui nessun altro sia in grado di tenere testa.

E allora, in quest’ottica, viviamoci in allegria e assoluta tranquillità questo Venerdì 13, che tanto, per una questione di equilibrio universale superiore, è quasi impossibile che anche la prossima razione di sfiga cosmica sia destinata a me.

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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La baba-jaga.

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C’erano una volta un vecchio e una vecchia; il vecchio restò vedovo e si riposò, mentre del primo matrimonio gli rimaneva una figlia. La matrigna cattiva non la poteva sopportare, la batteva e pensava in qualche modo di liberarsene. Un giorno il padre partì per un certo posto e la matrigna dice alla bambina: «Vai da tua zia, mia sorella, e chiedile un aghetto e del filo per cucirti una camicia». Ma quella zia era in realtà la baba-jaga gamba ossuta.
La bambina, che non era stupida, passò prima dalla sua vera zia. «Salve, zietta!» «Salve, cara! Perché sei venuta?» «La matrigna mi ha detto di andare da sua sorella a chiedere un aghetto e del filo per cucirmi una camicia». Quella la mette in guardia: «Laggiù, nipotina, una giovane betulla ti sferzerà il viso, tu legaci attorno un nastro; laggiù, il portone scricchiolerà e sbatterà, tu versa un po’ d’olio sui cardini; laggiù, i cani cercheranno di azzannarti, tu getta loro un pezzetto di pane; laggiù, il gatto cercherà di graffiarti gli occhi, tu dagli del prosciutto». Si mise in cammino la bambina; cammina cammina, arrivò.
Ecco una casetta: dentro c’è la baba-jaga gamba ossuta che tesse. «Salve, zietta!» «Salve, cara!» «La mamma mi ha mandata a chiederti un aghetto e del filo per cucirmi una camicia». «Bene; siediti intanto a tessere». La bambina si sedette al telaio, mentre la baba-jaga uscì e dice alla sua domestica: «Vai a scaldare il bagno e lava mia nipote, ma per bene, mi raccomando; voglio mangiarla a colazione». La bambina se ne sta seduta, più morta che viva, terrorizzata, e supplica la domestica: «Cara! Non , mettere al fuoco troppa legna, ma versa piuttosto molta acqua, porta l’acqua con un setaccio», e le regalò un fazzoletto.
La baba-jaga si stufò di aspettare; si avvicinò alla finestra e chiede: «Tessi, nipotina, tessi, cara?». «Tesso, zietta, tesso, cara!» La baba-jaga si allontanò e la bambina diede al gatto del prosciutto e chiede: «Non è possibile in qualche modo andarsene di qua?». «Eccoti un pettinino e un tovagliolo» dice il gatto «prendili e cotti via; la baba-jaga ti inseguirà, tu appoggia l’orecchio a terra e quando sentirai che è vicina, butta prima il tovagliolo: apparirà un fiume largo-largo; se poi la baba-jaga riuscirà ad attraversare il fiume e continuerà a inseguirti, tu appoggia ancora l’orecchio a terra, e quando sentirai che è vicina, butta il pettinino: apparirà un bosco fitto-fitto; attraverso quello non penetrerà!»
La bambina prese il tovagliolo e il pettinino e corse via; i cani volevano azzannarla, ma lei buttò loro un pezzetto di pane e quelli l lasciarono passare; il portone voleva sbattere, ma lei versò dell’olio nei cardini e quello la lasciò passare; la giovane betulla voleva sferzarle il viso, ma lei ci avvolse intorno un nastro e quella la lasciò passare. Intanto il gatto sedeva al telaio e tesseva: non tanto tesseva, quanto aggrovigliava. La baba-jaga si avvicinò alla finestra e chiede: «Tessi, nipotina, tessi, cara?». «Tesso, zietta, tesso, cara!», risponde con una voce grossa il gatto.
La baba-jaga si lanciò nella casetta, scoprì che la bambina era fuggita e giù a battere il gatto e a rimproverarlo perché non aveva graffiato gli occhi alla bambina. «Da quando sono al tuo servizio» dice il gatto «tu non mi hai dato neanche un ossicino, mentre lei mi ha dato del prosciutto». La baba-jaga si avventò sui cani, sul portone, sulla giovane betulla e sulla domestica, e giù a ingiuriarli e a picchiarli tutti. I cani le dicono: «Da quando siamo al tuo servizio, tu non ci hai mai gettato neanche una crosta bruciata, mentre lei ci ha dato un pezzetto di pane». Il portone dice: «Da quando sono al tuo servizio, tu non mi hai versato sui cardini nemmeno una goccia d’acqua, mentre lei mi ha unto con dell’olio». La giovane betulla dice: «Da quando sono al tuo servizio, tu non mi hai ornata nemmeno con un filo, mentre lei mi ha ornata con un nastro». La domestica dice: «Da quando sono al tuo servizio, tu non mi hai mai regalato nemmeno uno straccio, mentre lei mi ha regalato un fazzoletto».
La baba-jaga gamba ossuta subito entrò nel suo mortaio, con il pestello frustava, con la scopa le tracce cancellava, e si lanciò all’inseguimento della bambina. La bambina, allora, appoggiò l’orecchio a terra e sentì che la baba-jaga la inseguiva ed era già vicina; prse il tovagliolo e lo gettò: apparve un fiume davvero enorme! La baba-jaga arrivò al fiume e digrignò i denti dalla rabbia; tornò a casa prese i suoi buoi e li condusse al fiume; i buoi bevvero tutto il fiume fino all’ultima goccia. La baba-jaga si lanciò di nuovo all’inseguimento. La bambina appoggiò l’orecchio a terra e sentì che la baba-jaga era vicina, buttò il pettinino: apparve un bosco fitto e terrificante! La baba-jaga cercò di rosicchiarlo, ma per quanto facesse, non riuscì a penetrarlo e tornò indietro.
Intanto il vecchio era già tornato a casa e chiede: «Dov’è mia figlia?». «È andata dalla zietta», dice la matrigna. Poco dopo la bambina arrivò di corsa a casa. «Doce sei stata?», chiede il padre. «Ah, padre!» dice lei. «Così e così, la mamma mi ha mandato dalla zia a chiederle un aghetto e del filo pr cucirmi una camicia, ma la zia era in realtà una baba-jaga e voleva mangiarmi». «E come sei riuscita a fuggire, tesoro?» La bambina gli racconta tutto. Quando il vecchio seppe tutta la storia, si infuriò con la moglie e le sparò; da allora vive felice e contento con la figlia, e si è anche arricchito; da loro sono stato, ho bevuto del moscato: sui baffi è scivolato, in bocca non è arrivato.

 

♦ “Masha e l’Orso e altre fiabe popolari russe”,
Raccolte da A. N. Afanas’ev

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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Sarebbe possibile?

epifania-2017-befana

 

Grazie all’AnarcoPatia mi ritrovo, per l’ennesima volta, a trascorrere le feste a dieta.

Sfornare tre teglie di biscotti al cioccolato, con cui riempire le calze degli AnarcoNipotini, senza assaggiarne neanche uno non è da tutti e, di sicuro, non è da me: nonostante questo ce l’ho fatta.

Alla luce di questo, cara Signora Befana, per quest’anno sarebbe possibile sostituire i dolciumi che non potrò permettermi di rubacchiare con qualcos’altro?
Non saprei, delle gambe sane, ad esempio, o delle braccia funzionanti, o magari anche un fegato un po’ meno intossicato dai farmaci.
Lo so, lo so, sono la solita esosa, quindi abbasserò un po’ il tiro, ripiegando sui libri, come prevedibile, ma anche un posto tutto mio dove custodirli, leggerli, tradurli e, chi lo sa, magari anche iniziare a scriverli sul serio, in parallelo a un nuovo lavoro più consono alle mie condizioni di (non) salute.
Ancora troppo, eh? Va bene, allora rilancio con un po’ più di forza, innanzi tutto emotiva, ma anche fisica, perché è proprio quella a mancarmi: l’energia. L’energia per restare sveglia un’ora in più la sera per leggere, scrivere o anche solo per riuscire a vedere un film fino alla fine, l’energia per stare in piedi il tempo necessario a visitare una mostra con l’AnarcoSocio, l’energia per impastare e poi stendere un intero panetto di pasta frolla al cacao, perché come i biscotti della zia non ce n’è.

Insomma, per quest’anno sarebbe possibile avere una calza piena di serenità e di un pizzico di “normalità”?
Così, giusto per cambiare un po’…

 

Buona Epifania 2017!!!

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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Ma buongiorno Signor 2017!

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È ufficiale: abbiamo archiviato questo tremendo 2016!

In realtà non è proprio così, dato che il calendario medico è l’innegabile prova degli strascichi che mi ha lasciato in eredità, ma ho deciso di lasciare al 2016 quel che nel 2016 ha avuto origine, quindi pagina voltata: un nuovo, benevolo foglio bianco aspetta solo che io lo riempia di momenti felici e novità entusiasmanti.

Per quanto riguarda il blog posso dirmi soddisfatta per aver raggiunto l’obiettivo che mi ero posta, ovvero “superare” le statistiche del 2014, ma l’idea sarebbe quella di continuare a crescere e di migliorare ancora in costanza, aspetto che tuttora mi risulta piuttosto ostico.

L’ultimo acquisto dell’anno è stato all’insegna di una delle mie più grandi passioni, la meravigliosa lingua russa, e ho deciso che lo stesso varrà per il primo acquisto del 2017, anche se le nuove pubblicazioni interessanti sono tantissime, i soldi pochi e, di conseguenza, la scelta si fa difficilissima.

Non stilerò la canonica lista dei buoni propositi. Non che, quando mi è capitato di farla, io poi non mi ci sia applicata, è che proprio me ne dimentico nel giro di pochi giorni, nel migliore dei casi poche settimane.

Quello che posso dire è che i progetti che mi si agitano in testa sono pochi per i miei standard, ma la ridotta quantità è ben controbilanciata dal notevole innalzamento del loro livello di complessità: meglio poche cose fatte bene che tante fatte male, soprattutto ora che le energie sono razionate.

Ad esempio, la prima cosa che ho fatto, terminata la nottata con gli amici, è stata “imbrattare” la mia prima Moleskine originale, un lusso che non mi ero mai concessa perché avevo sempre visto lo storico taccuino come una sorta di Sacro Graal, da non contaminare con parole futili e insignificanti. La verità è che solo scrivendo tutto quel che passa per la testa si ha davvero la possibilità di riuscire a scrivere qualcosa di buono, mentre se ci si autocensura, nella convinzione di aver poco di valido da dire, si finisce per lasciarsi scappare anche le idee degna di nota.

Forse l’unico simil buon proposito per quest’anno, altro non è che il rinnovo del mio più classico e inflazionato proposito da anno nuovo: scrivere.
Scrivere ogni volta che qualcosa mi fa arrabbiare, scrivere ogni volta che mi sento giù, scrivere ogni volta che vorrei abbuffarmi di qualcosa che non posso mangiare, scrivere ogni volta che i farmaci sembrano farmi più male che bene, scrivere ogni volta che i dolori rendono insooportabile il semplice atto di respirare, ma anche scrivere ogni volta che gli occhi degli AnarcoNipotini si illumineranno vedendomi, scrivere ogni volta che un istante indimenticabile si aggiungerà all’elenco di quelli trascorsi con l’AnarcoSocio, scrivere ogni volta che mi farò una risata di cuore con un’amica, scrivere ogni volta che gli esiti delle analisi miglioreranno.

Proprio come i progetti, per il 2017 le motivazioni per cui scrivere sono diminuite, ma quelle rimaste sono più serie e impegnative che mai, quindi chissà mai che possa essere l’anno buono.

Intanto la prima fiaba del 2017 ve l’ho già rifilata, perché, anche se le fiabe non sono farina del mio sacco, le buone abitudini vanno mantenute.

 

Buon 2017!!!

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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La pagnottina.

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C’erano una volta un vecchio e una vecchia. Chiede il vecchio: «Cuocimi, vecchia, una pagnottina». «E con cosa te la faccio? Non c’è più farina». «Eh, vecchia, gratta il fondo della scatola, spazza il granaio; forse racimolerai un po’ di farina».
La vecchia prese un piumino, grattò la scatola, spazzò il granaio e racimolò due pugni di farina. La mescolò alla panna acida, fece cuocere nel burro e mise il tutto sul davanzale a raffreddare.
La pagnottina restò lì per un po’ di tempo e poi, improvvisamente, si mise a rotolare: dalla finestra alla panca, dalla panca al pavimento, per il pavimento verso la porta, attraverso la soglia nell’andito, dall’andito sulle scale, dalle scale nel cortile, dal cortile fuori del portone, e via, lontano.
Rotola la pagnottina per la strada e incontra una lepre: «Pagnottina, pagnottina! Ti voglio mangiare». «Non mi mangiare, lepre orecchiona! Ti canterò una canzoncina», disse la pagnottina e prese a cantare:

Dalla scatola grattata,
Dal granaio poi spazzata,
Con la panna mescolata,
E nel burro rosolata.
Sul balcone raffreddata;
Al vecchio son sfuggita,
Alla vecchia son sfuggita,
A te, lepre, non è difficile sfuggire!

E se ne rotolò oltre; la lepre rimase con un palmo di naso!…
Rotola la pagnottina e incontra un lupo: «Pagnottina, pagnottina! Ti voglio mangiare!». «Non mangiarmi, lupo grigio! Ti canterò una canzoncina!»

Dalla scatola grattata,
Dal granaio poi spazzata,
Con la panna mescolata,
E nel burro rosolata.
Sul balcone raffreddata;
Al vecchio son sfuggita,
Alla vecchia son sfuggita,
Alla lepre son sfuggita,
A te, lupo, non è difficile sfuggire!

E se ne rotolò oltre; il lupo restò con un palmo di naso!…
Rotola la pagnottina e incontra un orso: «Pagnottina, pagnottina! Ti voglio mangiare». «Ma fammi il piacere! Sei grosso e tonto!»

Dalla scatola grattata,
Dal granaio poi spazzata,
Con la panna mescolata,
E nel burro rosolata.
Sul balcone raffreddata;
Al vecchio son sfuggita,
Alla vecchia son sfuggita,
Alla lepre son sfuggita,
Al lupo son sfuggita,
A te, orso, non è difficile sfuggire!

E rotolò oltre; l’orso rimase con un palmo di naso!…
Rotola, rotola la pagnottina e incontra una volpe: «Salve, pagnottina! Come sei carina». E la pagnottina prese a cantare:

Dalla scatola grattata,
Dal granaio poi spazzata,
Con la panna mescolata,
E nel burro rosolata.
Sul balcone raffreddata;
Al vecchio son sfuggita,
Alla vecchia son sfuggita,
Alla lepre son sfuggita,
Al lupo son sfuggita,
All’orso son sfuggita,
A te, volpe, a maggior ragione sfuggirò!

«Ma che bella canzoncina!» disse la volpe. «Il problema, cara pagnottina, è che sono diventata vecchia e non ci sento bene; siediti sul mio musetto e ricanta ancora una volta un po’ più forte». La pagnottina saltò sul musetto della volpe e cantò la stessa canzone. «Grazie, pagnottina! È una bella canzoncina, vorrei sentirla ancora!Siediti sulla mia linguetta e canta per l’ultima volta», disse la volpe e tirò fuori la lingua; la pagnottina fu tanto sciocca da saltarle sulla lingua, e la volpe, am!, se la pappò.

 

♦ “Masha e l’Orso e altre fiabe popolari russe”,
Raccolte da A. N. Afanas’ev

 
 

Rompiamo il Silenzio!

 
 

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